La star sotto mentite spoglie.

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Dunque, allora… Vediamo. Non capisco molto bene.
Beh qui c’è un corridoio… stampanti… monitor. Dev’essere un ufficio. Proprio uguale a quello dove lavoravo prima. Cioè, credo di aver cambiato lavoro ma… non ne sono sicura.

Eppure si, si, qui parlano una lingua diversa… ricordo bene. Non capisco un cazzo ma ricordo bene.

No, e quindi… dovrei attraversare questo corridoio perché… devo fare qualcosa. Mh mh, devo fare qualcosa… ed è importante, penso. Tipo devo andare al reparto IT. Cose che si è rotto un monitor o qualcosa del genere. Magari mentre ci penso qualcuno si sta incazzando perché sono lenta… perché non capisco. E mentre non capisco… magari non può lavorare o… non può guardare un porno, magari. Non lo so, non sono mai stata qui.

Quindi arrivo in fondo al corridoio… e c’è luce, ecco, finalmente luce. Una luce bianca e luminosa, estiva, calda e morbida, da sedercisi dentro e farsi coccolare.

“Reparto IT?”

“Si. Cosa ti serve?”

“Niente, s’è rotto un monitor mi sa.”

“Sicura?”

No, non sono sicura di niente. Non sono neanche sicura di quello che vedo: mi sembra proprio che tu sia Matthew Herbert, signor IT.

“Ma tu sei Matthew Herbert?”

“Si.”

“Che cazzo ci fai nel reparto IT del dipartimento di Culonia?”

“Quello che ci fai tu.”

Ah ecco. Ci mancava solo la star sotto mentite spoglie che mi fa tranelli esistenziali. Però, se tu sei Matthew Herbert, la cosa più intelligente che possiamo fare per trovare risposte forse è ballare. Non so, Matthew, dillo tu, perché a me non vengono idee migliori.

L’unica cosa che so è che la tua musica è perfetta per ballarci su, ma di sicuro non lo è come sveglia la mattina.

Dreamed by: Co.

Appunti di viaggio.

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In questo sogno non c’è una storia.

In questo sogno c’è solo la paura di volare. E non è una metafora della vita.

In questo sogno ci sono immagini sparse di aerei, di atterraggi di emergenza, di decolli senza speranza.

In questo sogno mi dico che l’unica soluzione è non volare.

E allora, in questo sogno, prendo un treno.

Trascorro lunghissime ore in questo treno, nei pressi di una porta scorrevole che non fa che cigolare. Ma anche nei pressi di una creatura moccolosa e sudaticcia di anni quattro che con le mani sporche di patatine al formaggio vuole a tutti costi toccarmi. Lo fa sorridendo, la creatura, protetta da quell’immunità riservata ai bambini, che trasforma il piccolo mostro in un essere intoccabile e me in un mostro. Tra l’altro, toccabilissimo dalle sue manine unte.

In questo sogno mi rendo conto per la prima volta della quantità di patatine al formaggio che un coso alto 95 cm è in grado di ingurgitare con tutto quel tempo a disposizione.

La vespa, l’Ape cross, la mongolfiera, il dorso d’elefante, l’autostop sono tutte ipotesi che decido di valutare alla fine di questo viaggio al centro del formaggio. Il dorso d’elefante mi piace molto e in fondo, se mi do un’ottimistica aspettativa di vita di 347 anni forse ce la faccio a vedere qualcosa del mondo.

C’è poco fare, in questo sogno, io su quell’aereo ci devo salire. E allora io ci salgo.

Imbarco.

Faccio un rapido screening dei passeggeri a bordo.

Ci sono molti bambini (sempre loro, immancabili) quindi la notizia del disastro sarà più succulenta.

C’è Emilio Fede, quindi se il disastro non avviene, l’aereo lo tiro giù io.

C’è anche una squadra di football americano, e dato che ho visto Alive almeno 7 volte, non c’è dubbio, il disastro ci sarà.

Ma quando succede non è come me l’aspettavo.

Madri sorridenti attaccano la maschera dell’ossigeno ai loro bambini (sempre loro), quieti e composti che neanche a messa, mentre precipitano allegramente verso la fine.

Eleganti passeggeri si lanciano in posizioni plastiche dallo scivolo di emergenza, come acrobati provetti, non curanti del fatto che l’acqua sotto di loro probabilmente non supera i 5 gradi, temperatura particolarmente apprezzata dallo squalo tigre.

Un rubicondo ragazzetto soffia nei tubi del suo giubbotto di salvataggio con la stessa espressione sognante che avrebbe se stesse succhiando Estathè da una cannuccia, in un pomeriggio di agosto.

Voglio essere anche io parte di questa gioiosa tragedia.

Allora allaccio la cintura di sicurezza, quella delicatissima striscia di tessuto indispensabile in caso di schianto a 800 all’ora.

Poi mi tiro su il cappuccio della felpa.

Indosso gli occhiali da sole.

Indosso le cuffie dell’Ipod.

Indosso il miglior sorriso di cui sia capace.

E lo regalo al mare fuori dal finestrino.

Enorme, violento, vicinissimo.

Te l’ho detto, mare, che un giorno sarei tornata.

Dreamed by: Monsters

La fame.

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Mi trovo davanti a uno scenario desolato, un vuoto pneumatico che sembra risucchiare ogni cosa intorno. Sto in piedi a fatica, contro uno spazio muto, bianco come la pagina dello scrittore fallito.

La carcassa di qualcosa che un tempo doveva essere viva si accartoccia, nera, in un angolo remoto di questo deserto, avvolta in un sudario trasparente e logoro. Nascosta, sporca e scomoda come la vergogna.

Fa freddo.

Una luce spietata e piatta mi si pianta in piena fronte, confondendomi le idee. E poi qualcosa, un ronzio disperato, come uno sciamare di vespe invisibili. Dove siete. Venite fuori. Il ronzio smette, ricomincia, smette ancora. Si nascondono, le stronze. Vogliono tendermi un agguato.

Poi lo vedo.

Un piccolo punto rosso in campo bianco: una ciliegia ammaccata, orfana della sorella, che tenta in tutti modi di restare aggrappata alla vita. La raccolgo e la tengo tra le mani come se fosse l’ultima reliquia scampata all’apocalisse.

Io e te stiamo morendo, ciliegia.

E ce ne restiamo qui a guardare.

Perciò cerca di perdonarmi per quello che farò.

La ciliegia si offre docile al sacrificio, in modo quasi commovente e quando la assaggio sa di fame nel mondo, di carestia, di anni di raccolti andati male.

Mi tornano in mente immagini di Natali passati. L’odore di biscotti alla cannella appena sfornati, che mia madre nascondeva perché io e mio padre non li finissimo prima della vigilia.  Mi torna in mente il ristorante di mio nonno, il suo unico cameriere con un tremore cronico alle mani, che si ostinava a servire piatti di brodo traboccanti, versandoli con una precisione da cecchino sui colletti inamidati dei clienti. Mi vengono in mente le brioche calde, al gusto di alba chimica dopo l’ennesima notte di delirio, una via di mezzo tra il velluto della cioccolata e il ritorno amaro di una vodka di ultima categoria.

Darei qualsiasi cosa, per una brioche calda. O per una vodka di ultima categoria.

Se resto viva smetto di fumare.

Se resto viva faccio una vita sana, mi sposo e faccio tanti bambini.

E quando penso che non resterò viva e che sto per arrendermi mi dico che no.

Che questo non può succedere a me.

Perciò mi alzo.

Chiudo il frigo.

Lo lascio lì, a ronzare.

E scendo a farmi un kebab.

Dreamed by: Monsters

Passaporto per la paura.

ImageBiglietto per Boston, destinazione Berklee College of Music.
Perché io ci vada, non avendo nessun senso del ritmo e non essendo in grado di suonare neanche il triangolo, resta un mistero.
O quasi.

Parcheggio fuori dall’aeroporto con l’intenzione di lasciare qui la macchina per sempre.
Pessima pensata.
In questo futuro imprecisato in cui gli aerei sono razzi cargo dove i passeggeri vengono stivati come vacche e gli aeroporti sono edifici di plexiglass bianco pieni di scale a chiocciola in metallo lucido, la bruocrazia è sempre la stessa.
Entro ed esco da questo aeroporto tre volte.
Ogni volta non ho il visto necessario.
Ogni volta riprendo la macchina, cerco un rifugio per la notte a casa di qualche amico e torno il mattino dopo.

Finchè, al terzo giorno, mi lasciano passare e mi avvio fino al gate.
Chilometri e chilometri di corridoi bianchi per arrivare al mio razzo per gli Stati Uniti, imbarcandomi con milioni di volti sconosciuti.
Nei loro occhi, speranze.
Nei miei, il miraggio di qualcuno che mi aspetta al di là dell’oceano. Al di là dello spazio.

Quando atterro dall’altra parte comincio la mia ricerca.
Gli States non sono come ce li hanno raccontati.
Sono un paese sconosciuto e fiabesco. Villaggi sparsi abitati da personaggi alieni e alienati.

Praticamente, il regno di Oz.

Il primo villaggio che incontro sul far della sera, sulla mia strada verso Boston, è un luogo crepuscolare e gotico. Ciottoli sulle strade, rami che si attorcigliano l’uno all’altro, case piene di comignoli contorti e piccoli giardini semimorti. Dopo poco appaiono gli abitanti di questo paese fuori da ogni logica, strisciando sul selciato come se non avessero piedi. E infatti non li hanno. Sono figure evanescenti, prive di sostanza. Un esoscheletro semovente fatto di rami secchi intrecciati tra loro, fino a formare una silhouette lunga,  dalla gonna scampanata e dall’ombra nera.

Si allungano su di me con le loro dita nodose, finchè non vengo tirata per una spalla dall’unico umano del paese: il parroco, a quanto pare, o il ministro di una religione pioniera di questo luogo tetro e spettrale.

Non fidarti, mi dice.
Non fermarti qui per la notte, mi dice.
Non potrai più andartene, mi dice.
Solo io posso salvarti, mi dice.

Le ombre calano scure sulla terra e su di me mentre penso che questa è la trappola più affascinante che abbia mai visto.
Come se una religione potesse davvero salvare qualcuno.

Dreamed by: Co.

La crema miracolosa.


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Sono di nuovo al matrimonio di una mia amica.

Cioè, il matrimonio c’è già stato ma a quanto pare non bastava. Oh, magari la festa gli era piaciuta tanto che hanno deciso di rifarla. Capita anche ai migliori eh.
Sono in un castello della Francia settentrionale, la temperatura è mite e il parco davanti all’atrio infinito.

Stiamo aspettando l’arrivo degli sposi sulla scalinata del castello, mentre i raggi di un sole tiepido scaldano le nostre spalle nude e fanno risplendere i nostri vestiti di seta.

O le nostre magliette dei Nirvana, nel mio caso.

Porca Eva mi sono dimenticata di cambiarmi. Devo rimediare subito.

Salgo al primo piano del castello dove trovo un’immensa changing room. In un angolo, la mia valigia. In men che non si dica tiro fuori il mio vestito da cerimonia, le mie scarpe col tacco e la mia crema miracolosa.

Ultimo ritrovato della più moderna ricerca dermocosmetica, questa crema consente a chiunque la applichi di assumere le sembianze di chiunque desideri. Vuoi trasformarti nella tua migliore amica? Sbam, due passate di crema ed eccoti lei. Vuoi trasformarti in Tina Turner? Idem. Vuoi trasformarti nel tuo barboncino? In pochi gesti sarai ricoperta di pelo di cane.

Attenzione, la crema va applicata sotto stretto controllo medico. Non utilizzare in gravidanza.

Mi infilo nel mio vestito di raso rosa e mi avvicino allo specchio. Ho un barattolo di crema in mano. Sono nel pieno possesso delle mie facoltà. Con la destra svito il coperchio. Con la sinistra tengo saldo il barattolo. Con la coda dell’occhio guardo la mia immagine riflessa: un ciuffo di capelli spinaciosi su una faccia da minorenne tossica, in un vestito da cerimonia.

Decido che voglio assomigliare a una teenager americana qualunque. Un agglomerato di plastica e di fulgido impegno estetico. Una passata ed eccomi qui: perfetta, guance rosate e trucco perfetto, con una lunga criniera bionda che si adagia morbidamente su una spalla. Sono così bionda che quasi mi dispiace sapere che l’effetto miracoloso sparirà e che tra poche settimane non avrò più questi capelli così lunghi, setosi e lucenti.

Sono perfetta.
Sono pronta per il matrimonio.
Ma cosa sto dicendo.
Sono pronta a fare casino.
Ecco, meglio.

Dreamed by: Co.

 

Le ballerine interrotte.

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I miei piedi, i tuoi piedi. Destro avanti, destro indietro.

Insieme, le nostre punte, sugli stessi passi.

Io e Monsters siamo due ballerine. Tipo le vere ballerine. Le scarpette rosa coi lacci, il tutù di tulle, lo chignon perfetto e i piedi sanguinanti. Le vere ballerine. Quelle lì.

Quelle che si spaccano i piedi sul parquet del backstage di un teatro. Il gesso, il body, il raso rosa, tutto è perfetto. Tranne la musica. Inquietante, cupa. Internamente angosciante. Come se fosse scritta da Trent Reznor.

Io e Monsters proviamo gli ultimi passi, pliè, casquè, bona lè. E ci prepariamo per salire sul palco. Ma ahimè, l’accesso al palco è murato. E anche la strada per tornare indietro. Come in un video di Trent Reznor.

Siamo bloccate qui, in questo corridoio angusto, prigioniere di non sappiamo chi. E non sappiamo chi verrà ad aiutarci. Intrappolate in questi due metri quadri di spazio, dove si mescolano lycra e crepe, raso e ragni penzolanti dal muro, dove ci abbracciamo spaventate in un fruscio di tulle mentre una voce lontana ci canta una canzone incomprensibile.

Forse è Trent Reznor.

Dreamed by: Co.

Il tour inglese.

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Ecco, ero già stupita del fatto che non fosse ancora successo.

Sono in tour con Memory9 e Om Unit. Nello specifico, io guido il furgone con le attrezzature. Loro sono davanti, in un van super accessoriato. Io dietro, con un ampio corredo di sintetizzatori e tastiere e cavi elettrici. Se tutto il mio carico prendesse improvvisamente vita, ne verrebbe fuori un droide assassino. Per fortuna non succede e tutto tace mentre guido nervosamente per le stradine del countryside inglese.

Nervosamente perché loro vanno troppo veloce e io non riesco a stargli dietro. E infatti basta una curva in ritardo e sono persa nel nulla. Io e i miei cavi ci guardiamo nelle rispettive fessure USB e tiriamo un sospiro di disperazione. Nessuno tornerà indietro a riprenderci e noi non sappiamo dove andare. L’unica cosa possibile, in questo momento, è bersi una birra. E poi ho voglia di patatine.

Torno indietro di qualche curva, c’era un bellissimo pub dove mi spilleranno un po’ di nettare dorato. Parcheggio il mio furgone, entro e mi assesto stancamente su una panca di legno. Davanti a me, una coppia di anziani coniugi.

Sono i miei nonni.

Cosa ci facciano qui non si spiega. Mi guardano come se dovessero dirmi qualcosa. Anzi, la nonna. Il nonno la tiene stretta come se dovesse andarsene di nuovo da un momento all’altro. Come se dovesse lasciarlo ancora e più definitivamente. Lei mi guarda. Ha il suo solito cappottino e il suo foulard a fiori.

Nonna, cosa devi dirmi. Non abbiamo tanto tempo.

Mi guarda in silenzio. Come se non mi riconoscesse veramente fino in fondo, ma cercasse di farlo.

Sarà la mia faccia sperduta e il mio sguardo spaventato. Sono sola in un paese che non conosco e nessuno parla la mia lingua.

In questo silenzio arriva la mia ordinazione.

Non lasciatemi almeno voi, almeno per il tempo di una birra.

Dreamed by: Co.

La pallottola spuntata.

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Una vita. Una vita che mi nascondo.

Eppure non è abbastanza. Mi hanno trovato anche stavolta, in questa portineria di un brutto palazzo di periferia dove vivo nascosta con lui e il nostro cane. Un brutto appartamento pieno di mobili vecchi e coperte a quadrettoni.

Bussano alla porta. Hanno brutti completi gessati e mitragliette. Lui si mette tra me e il fuoco che si apre quasi immediatamente, beccandosi una pallottola nel cuore. Lo vedo cadere e vedo il mio cane massacrato dai colpi mentre dietro di me si chiudono le porte dell’ascensore e comincio a salire.

Li aspettavo, altrimenti non si spiega la mia tenuta da Lara Croft con anfibi e pantaloni di pelle.

L’ascensore sale, sale fino al soffitto e non accenna a rallentare, come se fossi nella fabbrica di Willy Wonka. Ma invece di attraversare il soffitto e cominciare a volare, l’ascensore mi porta in una superfuturistica stazione di controllo.

Pareti di vetro, scienziati in camice bianco, megaschermi touch. E là sotto, una città dove brulicano persone. Dove brulicano assassini.

Sulla mappa interattiva del megaschermo cerco un altro posto dove nascondermi. Un posto riservato alle spie, agli agenti segreti, ai senza casa e senza Dio come me. C’è una casa, nascosta tra le pieghe delle colline, che è perfetta per me. Ci vado.

Dopo un lungo viaggio la trovo. Laggiù, in fondo al pendio. Una bettola dalle pareti di legno, con gli stessi mobili vecchi e le stesse coperte a quadrettoni del mio scantinato da portinaia. Qui starò bene, penso. Qui sarò al sicuro.

Ogni passo sull’erba sa di nostalgia e persone che ho lasciato indietro. Persone che si sono sacrificate per me. Per la mia missione. Per il mio destino. Che dev’essere molto ironico, perchè davanti alla porta della capanna, proprio a un passo dalla totale sicurezza, c’è Courtney Love. Courtney Love vestita peggio del solito. Vestita da pastorella povera.

La guardo negli occhi e so già cosa sta per succedere. Courtney sfila una pistola dal mantello, me la punta fra gli occhi e spara.

Prima del buio, penso alla mia missione. Fallita. Penso a lui. Morto.
E penso al mio cane. Quello che non ho.

Dreamed by: Co

Salti temporali.

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Autunno di un anno che non so, ma potrebbe capitare intorno ai trenta del secolo scorso.

La scena è in bianco e nero, in una stanza.
Pareti misere, carta da parati, mobili da film di Polanski.
Io sdraiato in terra, colpito da non so cosa.
Lei inginocchiata di fianco a me.
Triste, malinconica, non piange e mi guarda con occhi d’amore.
Io mi sa che sto morendo.
E’ giusto che io lo faccia, in quel momento e non in un altro.
Ecco perché lei non piange.
Molte cose dipendono dalla mia morte, non ultime quelle che succedono fuori dalla stanza.
C’è una finestra, sul muro. Aperta.
Fuori non è in bianco e nero, è solo grigio.
Potrebbe essere Varsavia o una città del genere, in quegli anni tristi.
In strada molta agitazione, i tram sono fermi, la gente si muove impazzita.
Ma non c’è nessuno.
Non c’è nessuno, eppure tutti si muovono come se fossero inseguiti.
Non muoio.
Mi sveglio, sogno di farlo.
Siamo in un’epoca diversa, in una città diversa.
Ma lei è sempre lì inginocchiata, io sempre lì morente.
Fuori la situazione è identica a Varsavia in bianco e nero, ma rovesciata e a colori.
Noi in strada, la gente dentro una casa.
Capisco che tutto sta per finire, a meno che si scateni un temporale.
Improvvisamente, piove.
Lei fa un salto.
E tutto finisce.

Possibile che le cose si risolvano sempre così, nei sogni?

Dreamed by: Parco Cane.

Ascensore per l’inconscio.

Una finestra socchiusa contro un cielo pieno di stelle. 
Al di là della finestra un campanile di pietra, in un paese senza nome e senza tempo. Al di qua della finestra una camera d’albergo. 
Al centro, io. Ovunque, silenzio. 
Anzi no, un vociare sottile di gente per strada. 
Mi affaccio, c’è un uomo che tira un carretto pieno di frutta, una donna con una veste lunga e un grembiule. Un capannello di bambini, sul marciapiedi, raccolto attorno al giro di una trottola. Bambini che a quanto pare non hanno mai visto una playstation. 
Dove sono i telefoni e le auto. Che fine hanno fatto le insegne al neon. 
Dunque. O sono finita in una comunità hamish, oppure ho fatto un viaggio nel tempo.
Mi sembrano entrambe ipotesi valide, l’unica è andare a verificare. Per fortuna nessuno mi obbliga a vestirmi come Troisi in Non ci resta che piangeree in una frazione di secondo sono uscita dalla mia camera e scesa in strada. 
Devo svelare questo mistero. Sono curiosa, sono motivata, sono l’eroina surreale di un racconto alla De Maupassant, nessuno mi impedirà di scoprire la verità.
Però mi scappa la pipì. Mi scappa davvero.
Come non detto, bisogna che torni subito in camera.
Entro in albergo e prendo l’ascensore. Pare che gli hamish non guidino auto e non guardino la tv, però non abbiano niente contro gli ascensori. O meglio, contro gli ascensori impazziti. Perché la cosa migliore che può succederti mentre te la stai facendo addosso e incappare in un ascensore che decide di portarti ovunque tranne che al tuo piano. 
Me li fa fare tutti: il piano con la moquette verde, quello con la moquette azzurra, il piano senza moquette e la moquette senza piano. 
Poi, finalmente, arrivo di nuovo al piano sbagliato. Lo scantinato. 
Esco lo stesso, troverò un bagno qui. Lo spazio che ho davanti è grande come un hangar, semi buio e pieno di polvere, di mobili coperti da lenzuola, di scatole e sedie impilate una sull’altra. 
Mi guardo intorno, ma niente bagno. Allora devo tornare su. 
Ma c’è gente, tanta gente che aspetta l’ascensore. 
Perfetto. Ci mancava solo il raduno degli Amici degli Scantinati.
Mentre aspetto, mi guardo intorno e  un po’ più in là, tra attaccapanni e tavoli inutili, vedo una pedana illuminata e un palo. E soprattutto due ragazze bellissime, biondissime e nudissime che ballano la lap dance più sexy che abbia mai visto.
Questa non è roba hamish. E neanche roba d’altri tempi.
A questo punto la mia voce fuori campo mi rivolge la parola.
      
            Dovresti aver capito dove ti trovi.
         No.
         Sei in un sotterraneo. Sei sotto la superficie. E sei in un sogno. Quindi…
         Non ci arrivo. Mi serve un bagno.
         Sei nel tuo inconscio, stupida.

Giusto. Come ho fatto a non pensarci prima.
Adesso non mi resta che fare i conti con una verità piuttosto sconcertante.
Il mio inconscio è un club privè clandestino.
E io non so ballare. 

Dreamed by: Monsters